L’insufficienza venosa cronica degli arti inferiori, condizione responsabile delle cosiddette “vene varicose”, è una delle patologie più frequenti della nostra popolazione, coinvolgendo fino al 56% degli uomini ed il 60% delle donne come afferma Robertson in un articolo sulla epidemiologia della malattia varicosa nel 2008. I dati sono confermati nel 2016 dal tedesco Rabe, raccogliendo l’esperienza Europea riportando un aumento fino al 70% nel sesso femminile nei primi stadi della malattia. Dal 2% al 5% della popolazione over 70 giunge agli stadi più severi della patologia, soffrendo così di ulcerazioni cutanee croniche associate all’ipertensione venosa, rappresentando come pubblicato da Harry sul Journal of Vascular and Lymphatyc disorders nel 2014 con dati rilevati da 84 centri in USA, un costo sociale molto alto e destinato ad aumentare in relazione all’invecchiamento della popolazione.
Emerge la necessità di trovare un giusto compromesso tra prevenzione e terapia nei soggetti più giovani prima che compaiano complicazioni più severe; intervenire quindi per prevenire e non solo per curare, come affermano gli americani Raju e Mallik, dove dall’analisi di 44.000 pazienti varicosi affermano perentoriamente che la precocità del trattamento allontana guai più seri riducendo anche notevolmente costi sociali.
Esiste però un metodo ideale per curare le vene varicose?
Le vene varicose sono state menzionate per la prima volta nel cosiddetto papiro di Ebers, risalente al 1550 a.C. esso è uno dei primi documenti medici nella storia documentata. Questo manoscritto egizio conteneva le conoscenze erboristiche dei medici dell’epoca. Gli antichi si riferivano alle vene varicose come “avvolgimenti serpentini” e scoraggiavano gli interventi chirurgici poiché spesso avevano esito fatale.
Nell’antica Grecia, anche il padre della medicina moderna Ippocrate sconsigliava la chirurgia, ma introdusse un metodo alternativo di trattamento utilizzando bendaggi compressivi , mentre un altro medico greco, Galeno, descrisse la prima flebectomia, egli descriveva di aver praticato le incisioni con uno strumento acuminato e poi forgiato ad uncino, dopodiché avrebbe estratto il più possibile la vena colpita. Anche i medici romani praticavano una procedura simile nello stesso periodo. Pratiche eseguite anche oggi, anche se ai tempi non esisteva anestesia, tanto da rendere la pratica troppo dolorosa. Il primo stripping venoso ha matrice araba, e fu un medico di nome Albucacis, in netto anticipo sui tempi, a descrivere questa procedura, praticata in molti ospedali ancora oggi.
Tutta a matrice italiana la principali scoperte sulle vene: Leonardo da Vinci fu il primo a mappare l’anatomia delle vene varicose nel XV secolo quando ha raffigurato l’anatomia delle vene delle gambe con inquietante precisione. Il professor Hieronymus Fabricius dell’Università di Padova ha individuato per la prima volta la valvola venosa responsabile del garantire il flusso nelle vene verso il cuore nel 1603.
Si dovette attendere il 1900 perchè l’anestesia generale consentisse asportazioni e tecniche invasive, ma comunque risolutive in molti casi, a prezzo di invalidanti cicatrici e decorsi operatori lunghi e frequentemente complicati.
Fortunatamente le aggressive pratiche chirurgiche del passato sono state via via sostituite da metodi rapidi, indolori e meno invasivi.
Molteplici e fantasiose sono le metodiche inventate per rendere una vena refluente, potenzialmente foriera di guai futuri, priva di reflusso, e come tale però anche impossibilitata a portare sangue, nemmeno verso il cuore, la funzione per la quale era stata creata.
Queste consistono nell’introduzione di uno strumento (una fibra, un catetere o un ago) all’interno del vaso malato, procedendo poi all’eliminazione dello stesso mediante erogazione di energia termica e/o di sostanze occlusive.
In particolare, tra le tecniche termiche si riconosce il Laser, tra i primi a proporlo gli americani Min e Morrison alle soglie del secondo millennio, la Radiofrequenza poi fino al Vapore del francese Milleret.
Altre metodiche endovascolari non termiche prevedono oggi la chiusura della vena con schiume sclerosanti, invenzione tutta italiana del 1999 (Tessari e Frullini), o colle sottoforma di particolari gel di cianoacrilato.
Tutte queste metodiche hanno però la stessa finalità, quella di rendere un vaso, la vena safena appunto, sostituita da un cordone fibroso senza flusso, anche se come riportato da numerosi studi clinici controllati, con un risultato in termini di recidiva e di ripresa di malattia venosa a distanza, ancora troppo alto e non diverso dal vecchio stripping. Altri studiosi hanno proposto metodiche più gentili, con il fine di riparare la circolazione venosa agendo con precisione nei punti in cui le valvole all’interno della vena non riescono più a garantire la giusta direzione di flusso.
Sono approcci moderni che presuppongono una padronanza piena della materia, la tecnica Chiva del padre della emodinamica venosa Franceschi e di altri illustri flebologi, oppure la metodica Asval, del suo connazionale Pittaluga, entrambe volte alla salvaguardia del patrimonio venoso e non alla sua distruzione.
A seconda di quali siano le valvole malfunzionanti sarà possibile applicare diverse tecniche finalizzate a chiudere i “punti di fuga” del sistema venoso, diminuendo così il sovraccarico all’interno del vaso precedentemente dilatato riportandolo ad un calibro normale, come ha recentemente pubblicato il vice presidente della Unione Internazionale di Flebologia.
Oggi è possibile trattare le vene varicose ambulatoriamente, in modo indolore e senza deturpanti cicatrici, il più delle volte con rispetto dei tronchi principali, un tempo deliberatamente distrutti.
E’ stato dimostrato come la strategia basata sulla riparazione invece della demolizione porti a risultati migliori, come molto precisamente indicano il gruppo di ricercatori dell’American Venous Forum nelle linee guida della società di Chirurgia Vascolare statunitense già nel 2011 e ripreso anche recentemente dalle più blasonate Società Europee.
Ci auguriamo che Il futuro si diriga da un lato sempre più verso la conservazione di strutture venose (le vene safene) sebbene non vitali, e con metodiche sempre meno invasive. A l proposito oggi sta emergendo una nuova energia, quella emessa dagli ultrasuoni, quindi non più termica o chimica; una energia che possa attraversare la cute per colpire un bersaglio target sottopelle, lasciandola indenne; qui si collocano ancora ricercatori francesi, o inglesi come M. Whithley, o della vicina Austria come A. Obermayer, che stanno applicando queste metodiche con l’obiettivo di mimimizzare il danno venoso, una direzione che molte metodiche chirurgiche in genere stanno perseguendo, come la gamma knife per i tumori cerebrali, o la chirurgia robotica mirata per certe neoplasie, confinando le metodiche aggressive e demolitive, sempre più ai libri di storia della medicina.
Pubblicato su: Gazzetta di Parma 3 marzo 2021